Intervista a Elio Picardi, autore di “Le mie Tavole di Rorschach”

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1) Buongiorno Elio, potrebbe innanzitutto spiegarci le ragioni che l’hanno portata a realizzare quest’opera?

1) Quest’opera è nata da un’urgenza reattiva alle foto che ho ridescritto, spero poeticamente. Dovevo assolutamente esorcizzare il loro effetto devastante su di me, come negazione del Tempo fissato per aeternum sulla lastra, e come prova del suo trascorrere. La foto ritrae la Vita, testimoniandoci la Morte del soggetto vivente, o l’inorganicità senza vita della materia. Tecnicamente, ho scelto versi liberi per sfuggire alla costrizione della rima, ma ho usato unicamente endecasillabi, per ritmare quello che è statico per definizione, cioè l’immagine fissa. Ritmo in greco significa scorrere, e il Tempo ne è la metafora più filosofica.

2) Tra le fotografie che l’hanno ispirata qual è l’immagine a cui lei si sente più legato, quella che in qualche modo la “rappresenta” maggiormente come persona e come poeta?

2) Un santo oscuro (Joel-Peter Witkin, 1987) è la foto che più mi attrae e più mi repelle. Innanzitutto è la foto di una scultura composita, e questo crea già un gioco di specchi, ma l’anfibologia del manichino orrido, che ritrae una persona vivente nonostante mortali ferite e deformità, crea un vero e proprio circuito psicotico, una sindrome di Stendhal rovesciata, indotta dall’estetica dell’orrido, ossia dall’antiestetica che ha disseminato l’arte contemporanea di ipnotiche provocazione come questa. Io sono una persona solare e gioviale, ma il santo oscuro è il cono d’ombra perfetto della mia anima.

3) Un tema ricorrente nelle sue poesie sembra essere quello dell’artificio: per descrivere i fotografi lei spesso usa espressioni come “diabolico linguista” o versi come “anche il suo sangue nobile ha capito che nell’arte c’è molto meretricio”. Dal suo punto di vista la fotografia e la poesia sono accomunate in questa “sfiducia”, oppure ritiene che in qualche modo la poesia possa ristabilire la “verità” di fronte alle ambiguità dell’immagine?

3) Non nutro più fiducia nella fotografia che nella poesia, non privilegio né il linguaggio poetico in senso stretto né il linguaggio figurativo. Sono entrambi meretricio, in un senso tutt’altro che moralistico, sono le controprestazioni di piacere che l’artista offre al fruitore/spettatore/cliente in cambio del suo sostentamento, nel caso dell’artista di professione, o in cambio dell’ammirazione gratuita, nel caso dell’artista dilettante. Che il meretricio sia il mestiere più antico del mondo, poco importa, gli oggetti di scambio, vagine e falli, sono già dipinti con l’ocra nelle grotte preistoriche di Altamira. Non esiste una Verità, esiste uno scambio di informazioni condiviso nel piacere, o rifiutato nel disgusto.

4)  Dopo “Rorschach” ha in mente nuovi progetti letterari?

4) Sto collaborando con un fotografo per affiancare a foto paesaggistiche altrettanti miei sonetti, e da solo sto componendo una silloge di poesie monorime, che vorrei intitolare “Rime uniche”, giocando sul fatto che, pur non essendo capolavori, sono comunque composti da un’unica rima. Esercizi di stile, insomma. Nella vita passo per informale e casual, in poesia sono un rigido e irreprensibile formalista, con qualche deriva sentimentale, acuita dalla presenilità.

Per saperne di più su “Le mie Tavole di Rorschach”:

Le mie tavole di Rorschach

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